Il nodo scorsoio di Rijadh
MARCO D'ERAMO - INVIATO A NEW YORK
Per combattere davvero il terrorismo Washington dovrebbe mettere le mani nel ginepraio dell'Arabia saudita, che da decenni finanzia e arma tutti i movimenti fondamentalisti islamici. Invece cerca capri espiatori ovunque ma non a Ryadh. Dove però la resa dei conti è solo questione di tempo
La logica è impeccabile: 15 dei 19 dirottatori dell'11 settembre erano cittadini sauditi; il loro leader Osama bin Laden fa parte di una ricchissima famiglia saudita; la loro ideologia di puritanesimo islamico riformato è il wahabismo che è la religione di stato saudita; i loro fondi venivano tutti dalle opere pie saudite. Ergo: attacchiamo l'Afghanistan.
Qualunque persona di buon senso direbbe che, per estirpare il terrorismo, Washington non può non affrontare la contraddizione saudita. Da decenni l'Arabia saudita ha finanziato e armato tutti i movimenti fondamentalisti islamici in giro per il mondo, Fratelli musulmani in Egitto, Gia algerino, guerriglieri kashmiri, indipendentisti ceceni, ai musulmani bosniaci, fino appunto ad Al Qaeda. Invece l'amministrazione Usa si arrampica sugli specchi per cercare capri espiatori ovunque, tranne a Ryadh e dintorni. Perché, se volesse sciogliere davvero il nodo saudita, dovrebbe prima dipanare le proprie contraddizioni e poi elaborare un altro modello di controllo a distanza delle risorse strategiche.
In mancanza di queste due azioni, Washington è costretta a ingoiare un pitone salato dopo l'altro. Per anni i sauditi hanno regalato al regime talebano 150.000 barili di petrolio, molto di più del fabbisogno afghano, di modo che i taleban si rivendevano il petrolio eccedente per comprare armi. Le forniture gratuite sono cessate solo quest'estate, e solo il 24 settembre, su pressante insistenza Usa, Ryadh ha interrotto le relazioni diplomatiche col regime talebano (che era l'unica a riconoscere, insieme a Emirati arabi e Pakistan). Quando poi gli Stati uniti hanno chiesto di poter indagare sui 15 dirottatori con passaporto saudita, il potente ministro degli interni, principe Nayef, si è rifiutato di collaborare. E questo è avvenuto dopo lo schiaffo del 1996, quando a Khobar nella periferia di Ryadh, saltò in aria un edificio statunitense, uccidendo 19 militari e funzionari della Cia: anche allora la famiglia Al Saud si rifiutò di cooperare con gli Usa. Per di più, dall'estate 2000, la Cia non dispone più di interlocutori amichevoli nei servizi segreti sauditi: fino ad allora, per 19 anni l'intelligence saudita era stata guidata dal principe Turki bin Feisal che aveva studiato all'università di Georgetown ed era considerato uomo degli americani. Turki bin Feisal è stato l'unico membro della famiglia reale ad ammettere che i dirottatori erano sauditi "cresciuti nelle nostre famiglie, educati dalle nostre scuole".
L'allontanamento del principe Turki è solo uno dei momenti della faida intestina che dilania la famiglia reale Al Saud all'ombra del morente sovrano Fahd che nel 1995 è stato colpito da ictus e da allora non può parlare né muoversi, ed è incapace di riconoscere i suoi cari. Il potere reale è detenuto dal successore designato, il fratellastro Abdullah che però non può diventare re per l'ostilità degli altri clan e del ministro della difesa, principe Sultan. E la famiglia reale conta 7.000 membri, cioè 7.000 complottatori.
La famiglia costituisce un problema non solo politico, ma economico: mantenere 7.000 vite da sceicco svuota le casse del tesoro più ricco. Nonostante possegga un 15% delle riserve mondiali di petrolio, l'Arabia saudita fronteggia una situazione quasi disperata: il reddito procapite è dimezzato rispetto agli anni '80, il deficit dello stato è alle stelle, il paese è persino divenuto debitore all'estero, e la disoccupazione è al 30%. E quest'ultimo dato è tanto più drammatico quanto l'80% della popolazione ha meno di 18 anni e il tasso di natalità è tra i più elevati al mondo.
Sono quattro le idrovore che hanno dragato il mare di petrodollari su cui erano seduti i sauditi: 1) gli acquisti per centinaia di miliardi di dollari di sistemi di armi faraonici e inutili, visto che i sauditi non potranno mai combattere con armi statunitensi il loro unico plausibile nemico, Israele, che è l'alleato più stretto degli Usa. Con i loro acquisti, i sauditi hanno solo aiutato a rendere sostenbile per l'industria bellica americana lo sviluppo di tecnologie più avanzate: hanno in pratica contribuito al bilancio del Pentagono.
2) Le commesse civili e alle imprese petrolifere: le vie di Ryadh sono costellate di megalomani scheletri di edifici lasciati incompiuti per esaurimento delle risorse; ma nel frattempo hanno ricevuto commesse per altre decine di miliardi di dollari le imprese Usa del settore petrolifero come la texana Halliburton, di cui l'attuale vicepresidente Dick Cheney è stato presidente e amministratore delegato fino al giorno prima di annunciare la sua candidatura.
3) Il finanziamento del debito pubblico statunitense: soprattutto a partire dal 1991, dopo la guerra del Golfo, lo stato saudita ha proceduto all'acquisto (volontario o forzato) di un'imponente massa di buoni del tesoro Usa. Si calcola che il 38% del debito pubblico Usa sia in mano a creditori esteri, e di questa fetta, il 22% sia detenuta dai sauditi (altre cospicue porzioni giacciono nei forzieri del Kuwait e degli Emirati arabi che, in misura di poco inferiore, sono stati messi a sacco dagli stessi identici predatori). A tutt'oggi, i sauditi detengono l'8% del debito pubblico Usa, per un ammontare che si aggira attorno ai 200 miliardi di dollari (440.000 miliardi di lire). Se le quote del debito fossero azioni, si potrebbe dire che i sauditi sono l'azionista estero di maggioranza dello stato americano.
Questi tre elementi mostrano il meccanismo finanziario messo in atto dagli Stati uniti per riappropriarsi dei capitali spesi dal mondo intero per approvvigionarsi di petrolio saudita: è così che i miliardi spesi da italiani, tedeschi, giapponesi per comprare l'Arabian light (la qualità di riferimento del greggio) rifluiscono in America via commesse civili e militari, investimenti negli Usa e finanziamento del debito americano. Si capisce così come - e questo è vero fin dalla prima crisi petrolifera del '73 - gli Stati uniti abbiano tutto l'interesse a un corso elevato del greggio.
L'Arabia saudita è l'esempio da manuale di un circuito che fluisce in senso inverso a quello apparente, per cui i soldi sborsati ai paesi in via di sviluppo per comprare le materie prime, transitano solo in questi paesi, ma ritornano in realtà tutti nel nord del mondo. Si spiega così perché dopo trent'anni di manna petrolifera, nessuno stato produttore di petrolio - dalla Nigeria al Venezuela - abbia mai raggiunto benessere e sviluppo economico. Questo flusso invera nel suo senso più pieno la parola sfruttamento. Naturalmente, perché possa operare, questo meccanismo deve essere subìto e appoggiato dalla locale classe dominante: costei deve essere cointeressata a che il proprio paese venga spogliato: la corruzione delle classi dirigenti degli stati esportatori di materie prime non è perciò un dato etico, di cultura politica, ma è strutturale, il perno che garantisce a tutto il sistema di funzionare.
4) Ed è appunto la corruzione della famiglia reale la quarta idrovora che ha svuotato le casse dello stato. Da quanto i rapporti con i sauditi si sono tesi, i servizi americani hanno fatto filtrare alla stampa il contenuto delle intercettazioni telefoniche operate dalla National Security Agency (Nsa) sui membri della dinastia reale. E' orripilante quello che riporta il New Yorker: bustarelle dell'ordine di migliaia di miliardi generate dagli acquisti di armi trattati dall'ambasciatore saudita a Washington, principe Bandar.
Ma per quanto indispensabile al meccanismo di sfruttamento planetario, la corruzione ha un costo locale alla lunga insostenibile. Intanto in termini di consenso. Con che animo guarda alle gozzoviglie della famiglia reale riportate dalla stampa di tutto il mondo quel 30% di disoccupati nella gioventù saudita? Più miliardi vengono dirottati nelle banche svizzere, meno fondi ci sono per lo sviluppo interno. E' questa perdita di consenso che ha costretto la dinastia Al Saud a lasciare carta bianca al fondamentalismo, cedendo persino una parte delle proprie prerogative alla polizia religiosa, la mutawwa'in. E infatti l'unico membro davvero deciso a combattere la corruzione della propria famiglia è il principe Abdullah che però (o proprio per questo) è anche il più antiamericano e il più prointegralista, e perciò è osteggiato dalla fazione filo-Usa.
Per mantenere la licenza di saccheggio, i principi hanno regalato il paese ai fondamentalisti, in un ciclo in cui più corruzione genera più integralismo. E' il Medioevo prodotto dalla globalizzazione finanziaria, con le donne ridotte a schiavitù e reclusione perpetua (ma le "laiche" compagnie di software americane hanno accettato la richiesta saudita di mettere dei filtri all'Internet che entra nelle loro case così che le loro mogli possano essere mantenute nella loro preziosa ignoranza). Il dato forse più preoccupante è che il 70% dei dottorati di ricerca in Arabia saudita è conseguito in Religione Islamica.
Gli Usa si trovano così confrontati con l'alternativa del diavolo: se mollano la dinastia Al Saud, salgono subito al potere gli amici di bin Laden (o di chi gli succederà): se invece la sostengono, alimentano l'appoggio alle idee del prossimo bin Laden e dunque il finanziamento alle sue iniziative. Ma tutti sanno che a Ryadh la resa dei conti è solo questione di tempo.
Fonte: Manifesto 24 novembre 2001